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Materie Plastiche
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Storia

Plastiche senza età

di Giancarlo Nazari

Immagine-01.JPG (3340 byte)Automobile giocattolo per bambini in resina fenolo-formaldeide, oggi improponibile per la tossiciità del primo costituente (Deutsche Kunstoff Museum)

 

 

Dove sono Bartholomäus Schobinger, Justus von Liebig, Henry Regnault, Christian Schönbein, Charles Goodyear e i loro successori, l'alchimista, il barone, il fisico, il cattedratico, l'americano, gli scienziati che nell'ottocento hanno studiato i polimeri?
Tutti, tutti dormono sulla collina.
Che fine hanno fatto i frutti delle loro scoperte, cioè i derivati della caseina, della melammina, i composti vinilici clorurati, la nitrocellolosa, l'ebanite?
Sono usciti di scena, o mantengono le posizioni conquistate in determinate nicchie di mercato, o sono sotto il tiro degli ecologisti, o ancora servono solo per fabbricare esplosivi, o faticano a reggere la concorrenza di materiali meno costosi o più facilmente processabili?

Interessante confrontare due pubblicazioni che si riferiscono alla storia dei polimeri ("The civilisation of plastics" del Sandretto Museum di Pont Canavese e "Faszination kunstoff" del Deutsche Kunstoff Museum) con il resoconto dell'APME (Association of Plastics Manufacturers in Europe) pubblicato nella primavera 2000 e che offre un quadro analitico dei consumi e del riciclaggio dei plastici per l'Anno del Signore 1998.
A un esame superficiale, i sistemi termoindurenti appaiono in difficoltà, pur mantenendo egregiamente le posizioni in importanti mercati. Del resto, la scienza delle macromolecole inizia proprio con loro.


Dall'alchimia all'autarchia

Tutto comincia, almeno stando agli storici tedeschi che hanno curato la pubblicazione del Deutsche Kunstoff Museum, con lo svizzero Bartholomäus Schobinger che nel 1530 scopre come trasformare un sottoprodotto della fabbricazione del burro e del formaggio, la caseina, in un materiale al quale viene dato il nome generico di "kunsthorn", corno artificiale.
L'etimo del termine "caseina" è dal latino "caseus" (formaggio), così come "galalite" (ma dobbiamo attendere il 1897 e i lavori di Wilhelm Krische e Adolf Spitter) deriva da "gàla" (latte) e "lithos" (pietra). 
Krische e  Spitter mettono a punto un processo decisamente avanzato: il loro materiale utilizza come componenti essenziali la caseina, appunto, e un composto che avrà una parte fondamentale nello sviluppo della scienza delle macromolecole, la formaldeide.
La loro creatura si presta magnificamente alla fabbricazione dei piccoli oggetti prima ottenuti lavorando le ossa o le corna dei bovini: lo prova il cofanetto realizzato in Belgio nel 1928, che testimonia il gusto di un'epoca in tema di design e di ricerca di materiali alternativi a quelli naturali, intesi come progresso e non come minaccia per l’ambiente.

Un desiderio che coinvolge altri aspetti della vita di tutti i giorni: non a caso, la rivoluzione dei mezzi di comunicazione determinata dalla diffusione della radio coincide con il "boom" dei prodotti sintetici. Basta con la radica, il legno, i metalli (che richiedono manodopera specializzata o limitano la creatività   dei progettisti): nella radio portatile inglese del 1930, i composti caseina-formaldeide hanno modo di esprimere tutte le loro potenzialità: forme complesse ottenute in tempi brevissimi (per l'epoca), colorabilità, leggerezza, sicurezza in tema di isolamento elettrico. Le stesse caratteristiche consentiranno al materiale di sopravvivere fino agli anni '50: la Philips, ad esempio, li utilizzerà ancora nel 1950 nella produzione di alcuni modelli di radio.
Meno fortunato l'impiego di questi polimeri per la fabbricazione di fibre sintetiche: il "Lanital" (che avrebbe dovuto vestire gli italiani dopo le sanzioni conseguenti alla guerra di Etiopia) si rivelò infatti decisamente inadatto allo scopo.
Resta il fatto che, in un periodo che vede la "mucca pazza" e i "Cobas del latte"  protagonisti delle cronache, varrebbe forse la pena di rivisitare una tecnica che potrebbe salvare nello stesso tempo quanto resta della zootecnia e della chimica italiana. Le materie prime ottenute da risorse rinnovabili sono del resto già una realtà: il caso Novamont potrebbe insegnare qualcosa.

 
Termoplastico o termoindurente?

A ben guardare, ai suoi inizi la scienza delle macromolecole studia di preferenza i composti termoindurenti, quelli dotati di reticoli tridimensionali in grado di resistere al calore e agli agenti chimici. Unica eccezione, la celluloide, nata come surrogato dell'avorio per la fabbricazione delle palle da bigliardo.
Con il passare del tempo, però, le cose sono andate cambiando: l'uso di opportuni catalizzatori ha decisamente migliorato le caratteristiche dei termoplastici, mentre i termoindurenti pagano lo scotto legato alle difficoltà di smaltimento o di recupero. Tanto che oggi basta guardare i dati relativi ai consumi presentati dall'APME per vedere l'evolversi della situazione.

A fronte, infatti, di consumi di termoplastici  (oltre 32, 673 milioni di tonnellate), i termoindurenti hanno segnato un livello più modesto (5,630 milioni di tonnellate), delle quali oltre la metà divisa tra amminoplasti (sostanzialmente stabili nel triennio 1996-1998) e poliuretani (in crescita). Inalterate le quote di mercato per le resine alchidiche (sostanzialmente utilizzate dall'industria delle vernici, spesso in combinazione con sistemi ureici o melamminici), le epossidiche (adesivi e sistemi compositi per l'industria dell'automobile, la nautica o l'aeronautica) e i poliesteri.
Il perché di tutto questo è facile da spiegare: il settore dell'imballaggio vale, da solo, il 41% dei consumi, e qui la parte del leone spetta alle poliolefine (oltre 4, 210 milioni di tonnellate tra LDPE e LLDPE, più le altre 2,826 dell'HDPE) e le 2,389 del polipropilene. Aggiungiamo le 769.000 tonnellate del PVC, le quasi 960.000 del PS, le 1.229.000 del PET ed avremo un totale di  12,600 milioni di tonnellate.
Il successo del termoplastico è facile da spiegare: un materiale destinato a svolgere funzioni di involucro ha vita breve, e deve essere facilmente riciclabile. Proprio quello che è meno agevole fare con i sistemi termoindurenti, che però possiedono altre frecce al loro arco.

 

Fenoliche: a dispetto dell'eta'…

Le resine fenoliche sono i più antichi sistemi termoindurenti prodotti su scala industriale: il merito è di Leo Hendrick Baekeland, che nel 1909 riuscì a controllare la reazione tra fenolo e formaldeide già descritta da A. Baeyer nel 1872 e ad ottenere ben 119 brevetti riguardanti la sintesi del prodotto (che da lui prese il nome di "Bakelite) e le sue applicazioni.
Che, all'inizio, spaziavano dalla fabbricazione di oggetti di uso corrente (carcasse di piccoli componenti per la case come ventilatori, macinacaffé, orologi da tavolo eccetera) ai più impegnativi settori della fotografia: macchine fotografiche, anzitutto, ma anche tank per lo sviluppo delle pellicole, contenitori per i bagni di sviluppo e fissaggio, vaschette piane per la stampa delle carte eccetera.
Altri impieghi, che oggi farebbero inorridire qualunque biochimico, quelli nel settore sanitario, alimentare e dei giocattoli: si facevano con la Bakelite anche i corpi delle siringhe da iniezione, i piatti e i bicchieri da campeggio, le montature per occhiali, le automobiline che i bambini potevano portare alla bocca. E l'orrore è del tutto giustificato, se si pensa al fatto che tracce del tossico fenolo potevano migrare nei medicinali o negli alimenti.
Le resine fenoliche si sono così ritirate nella roccaforte dell'oggettistica, eventualmente sfruttando le caratteristiche isolanti che le hanno messe in diretta concorrenza con l'ebanite; da qui gli usi nella telefonia, nei componenti per automobile (distributori di accensione), nell'elettricità (quadri, prese, scatole di derivazione eccetera). Proprio in questi settori le resine fenoliche mantengono, quando non addirittura migliorano, le loro posizioni, come dimostrato dai consumi indicati dall'APME per il 1998: nel solo settore dei plastici (quindi escludendo adesivi e collanti) ben 160.000 tonnellate, usate in prevalenza per ottenere laminati, parti di automobili e componenti elettrici, contro le 150.000 t del 1996.

 

Resine amminiche

Ancora la formaldeide protagonista, ma questa volta associata a due composti più sicuri sotto il profilo tossicologico come l'urea e la melammina,  che oltre a tutto il resto consentono di ottenere anche (cosa impossibile con la Bakelite) manufatti nelle tinte bianche o pastello.
I primi polimeri contenenti urea vennero prodotti in laboratorio nel 1918, ma solo otto anni più tardi apparvero in commercio le polveri da stampaggio offerte dalla British Cyanides con il marchio "Beetle”, che ottennero notevole successo grazie all'eccellente rapporto proprietà/prezzo. I manufatti stampati con resine ureiche non avevano infatti colore né sapore, erano ininfiammabili, resistevano bene al calore, agli oli, ai grassi, ai solventi e a numerosi prodotti chimici. E, dulcis in fundo, avevano un ottimo aspetto superficiale ed erano dotate di buone proprietà meccaniche ed elettriche.
I settori di applicazione? Gli stessi della bakelite: incollaggio di laminati e di pannelli truciolari ,  produzione di componenti elettrici (spine, prese, interruttori, parti di elettrodomestici), fabbricazione di stoviglie (piatti, bicchieri, vassoi), nell'arredamento (mobili per bagno, maniglie, telefoni, carcasse per apparecchi radiotelevisivi).

Ulteriore progresso, le resine ottenute attraverso la condensazione della melamina con la formaldeide, apparse verso la fine degli anni ‘30: più costose dei composti a base di urea, possedevano però migliori caratteristiche di durezza, resistenza alla  deformazione, lucentezza superficiale, autoestinguenza, atossicità e inalterabilità nei confronti dei solventi, degli oli e dei  grassi.

Le masse da stampaggio melaminiche hanno così trovato largo impiego nella fabbricazione di parti di elettrodomestici (frullatori, asciugacapelli, rasoi elettrici, aspirapolvere), di armadietti per bagno, di contenitori per cosmetici, di componenti per l'industria elettrica (scatole di derivazione, morsetti, interruttori, contatori). I materiali hanno incontrato particolare successo nella fabbricazione di piatti, bicchieri, posacenere, portafiori e articoli decorativi.
Insieme, le resine amminiche hanno largamente superato i derivati fenolo-formaldeide: nel solo settore dei plastici ne sono state utilizzate, nel 1998,  411.000 tonnellate. I consumi totali hanno invece quasi toccato quota due milioni di tonnellate.

 

Epossidiche: 70 anni e non sentirli

Sintetizzate per la prima volta nel 1930, le resine epossidiche vennero lanciate sul mercato nel 1946, subito dopo la seconda guerra mondiale, dalla Ciba e dalla Shell. Piuttosto costose, offrivano il vantaggio di offrire un’eccezionale versatilità formulativa.
Potevano infatti essere indurite a caldo o a temperatura ambiente, ma in ogni caso i manufatti ottenuti  erano dotati di eccezionale adesione su ogni genere di supporto o di inserto, resistevano ottimamente agli agenti chimici e atmosferici, avevano ottime proprietà dielettriche e una elevata resistenza meccanica.
Inoltre, erano contraddistinti da eccellente stabilità dimensionale e minimo ritiro in fase di indurimento.
Le resine epossidiche sono importanti costituenti dei materiali strutturali e trovano applicazioni nell'industria elettrotecnica (trasformatori, condensatori, statori, collettori ad anello, parti di motori e interruttori, isolatori, circuiti elettrici stampati eccetera), nel settore aerospaziale (come leganti dei plastici rinforzati), nella nautica (scafi di imbarcazioni), nella cantieristica (condotte, vasche, serbatoi, canali per il drenaggio di liquidi corrosivi.
Altro uso, legato alla flessibilità formulativa, è la produzione rapida di prototipi o di oggetti di forma complessa, come dimostra il modello di cranio esposto al Museo di Dusseldorf.
Il costo, che si mantiene elevato, penalizza però i consumi nel settore dei plastici: 61.000 tonnellate nel 1998, su un totale di 306.000 fondamentalmente in funzione degli impieghi come adesivi.

 

Resine poliestere

Vero e proprio "anello di congiunzione" tra termoindurenti e termoplastiche, le resine poliestere costituiscono una famiglia assai differenziata e complessa di resine sintetiche, che comprende numerosi composti macromolecolari derivati dalla reazione tra alcoli poliidrici e acidi polifunzionali. Proprio per la  grande varietà delle materie prime di partenza si possono ottenere prodotti di diversa struttura e proprietà: i sistemi  insaturi, reticolabili, e quelli lineari e termoplastici delle fibre e dei film  in PET.
Nei sistemi reticolabili l’aggiunta di un opportuno catalizzatore provoca l’apertura dei doppi legami reattivi presenti nella catena polimerica, determinando una rapida (e irreversibile) trasformazione del materiale, anche alle basse temperature e in assenza di pressione.
Il composto polimerizzato presenta elevata stabilità dimensionale, eccellenti proprietà meccaniche ed elettriche, buona resistenza agli agenti atmosferici e alla luce, inerzia nei confronti della maggior parte dei solventi e degli aggressivi chimici, possibilità di realizzare pezzi di grandi dimensioni.

Le resine poliestere insature vengono usate in edilizia e nell'arredamento per ottenere lastre, condotte, serramenti, casseforme, pannelli decorativi, parti di mobili e cornici, statuine e soprammobili, sculture. Ma è nella nautica che trovano uno dei più importanti settori di impiego: soprattutto per la fabbricazione di scafi da diporto e componenti di grandi dimensioni per natanti di grandi dimensioni. E poi, l'industria dell'automobile e dei veicoli commerciali, dell'elettricità (isolatori, cassette di derivazione, pannelli portastrumenti), dell'impiantistica (cisterne industriali, contenitori vari), dello sport e del tempo libero (canne da pesca, aste per il salto in alto, sci, slitte, bob eccetera).
Inutile dire degli impieghi dei sistemi termoplastici, cioè del PET e delle sue applicazioni nell’imballaggio. Ma su questo tema torneremo in un prossimo articolo.

 

Pubblicato su Materie Plastiche ed Elastomeri 01-02/2001
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